Recuperare il paesaggio, con uno sguardo al futuro

In questa edizione della newsletter Lapilli+ ti raccontiamo di un’iniziativa volta a contrastare l’abbandono e lo spopolamento delle aree rurali attraverso il turismo sostenibile e il recupero del paesaggio storico, con un occhio anche alle sfide che i cambiamenti climatici ci pongono davanti. Quest’esempio arriva dalla Liguria, dal monte di Portofino per l’esattezza. Qui si sta cercando di recuperare il sapere costruttivo dei muri a secco che, per le loro funzioni di regimazione delle acque, potrebbero rivelarsi molto utili nell’attenuare gli effetti di precipitazioni intense così come di periodi di siccità. Speriamo che questa iniziativa possa ispirarti, tanto quanto ha ispirato noi.

Adagiata sulle pendici orientali del monte di Portofino si trova la valle di Niasca, protetta dai venti e ricca di acque. Un tempo dimora di monaci eremiti e poi del barone Giacomo Baratta, ha vissuto anni di abbandono, dal dopoguerra fino a tempi recenti, rispecchiando il destino di molte altre aree dell’entroterra ligure. Da qualche anno a questa parte, però, un gruppo di ragazzi si è messo in testa di recuperare parte della valle. Ha iniziato con la dimora baronale costruita a metà del 1800, con annesso un mulino, trasformandola in un rifugio per escursionisti. 

“L’idea era quella di ricreare un luogo che fosse un rifugio escursionistico, un punto di riferimento per il turismo sostenibile e che avesse come focus il rilancio del territorio”, ha spiegato al telefono Luca Pierantoni, uno dei gestori dell’Eremo di Sant’Antonio di Niasca. 

Oltre a offrire un tipo di ospitalità alternativa a quella che si può trovare nella Rapallo iper-urbanizzata e nell’esclusiva Portofino, la missione dell’eremo è ora focalizzata sul recupero dell’ambiente circostante e dei tipici terrazzamenti, conosciuti in Liguria anche come “fasce”, cioè strisce di terra coltivabili ricavate lungo i versanti scoscesi grazie alla costruzione di muri a secco.

la zona di cantiere sopra l’Eremo di sant’Antonio di Niasca

Così nel 2023 l’eremo ha partecipato e vinto un bando del Piano nazionale di ripresa e resilienza per la “protezione e valorizzazione dell’architettura e del paesaggio rurale” con il progetto Aquae. Al centro del progetto c’è la riabilitazione dei metodi costruttivi del passato per recuperare quanta più acqua possibile. 

“Questa idea di ricerca e di captazione dell’acqua era diventata un po’ una nostra fissazione”, spiega l’architetto Antonio Marruffi, che sta seguendo la realizzazione del progetto.

La gestione e il recupero dell’acqua è sempre stata centrale per la vita della valle di Niasca, come testimoniano antichi fossati, canali e cisterne, opere costruite in passato dai monaci eremiti per coltivare i terrazzamenti e far funzionare i mulini per la produzione dell’olio – dove era infatti l’acqua a far muovere le presse usate per schiacciare le olive.

In questo contesto, anche i muri a secco hanno sempre giocato un ruolo fondamentale. “I muretti a secco sono uno dei modi di raccolta delle acque che sono presenti nella valle”, dice Marruffi. Svolgono un’importante funzione di regimazione andando a influire sulla capacità di drenaggio del terreno. Se non viene gestito, infatti, il surplus di acqua cade di terrazzamento in terrazzamento e si accumula. “Nel nostro caso, invece, l’acqua viene raccolta alla base del muro, tramite delle canalizzazioni, sempre in pietra, con dei cosiddetti acquidocci”.

L’acquidoccio è una specie di canale che raccoglie l’acqua in eccesso che non viene trattenuta dal terreno. Nel caso dell’eremo, il muro e l’acquidoccio lavorano insieme, modellando il versante. I muri non sono perfettamente verticali, come le fasce di terreno tra un muro e l’altro non sono perfettamente orizzontali. Le acque convogliano così verso l’acquidoccio per poi confluire dentro un’antica cisterna.

Il funzionamento di un acquidoccio illustrato (Antonio Marruffi).

In Liguria si stima che ci siano circa 40mila chilometri di muri a secco e che i terrazzamenti ricoprano 42.636 ettari. Questi muri sono delle opere complesse che richiedono una piccola seppur regolare manutenzione. Sfruttano gli attriti verticali e orizzontali per rimanere in piedi, e se una pietra si sfila, va rimessa a posto affinché il muro mantenga sempre una sua pressione e stabilità. Oltre a drenare l’acqua in eccesso, il muro a secco ha la capacità anche di trattenere l’umidità. Se costruito secondo modalità specifiche, diventa parte integrante del ciclo dell’acqua ed entra in dialogo con l’acqua, lavora con l’acqua. 

Ma non solo.

“Il muretto a secco ha una funzione che non è solo quella di tenere su dei terrazzamenti. Dal punto di vista della vegetazione, fa crescere al suo interno delle piccole specie animali”, spiega Marruffi. “Mantiene un habitat al suo interno. La pietra accumula calore di giorno e lo rilascia di notte mitigando e stabilizzando le temperature”. E questo micro habitat creato dal muro a secco è “tutt’altra cosa rispetto a uno in calcestruzzo”.

Solo che per costruire un muro a secco non basta mettere una pietra sopra l’altra, ci vuole una progettazione ben precisa. “La posa delle pietre non è casuale”, dice Marruffi. “Ci sono tanti fattori che richiedono una grande professionalità, più di quanto si possa immaginare”.

Muraglieri al lavoro (Antonio Marruffi).

Nel momento in cui le valli si spopolano e la conoscenza sulla manutenzione di queste opere viene meno è facile capire come, nel giro di poco tempo, queste strutture possano cadere in stato di abbandono e franare. Ma se mantenute regolarmente, possono durare anche centinaia di anni, contribuire alla stabilità dei versanti, prevenire il dissesto idrogeologico e rendere abitabili e coltivabili i territori impervi.

Ma costruire muri a secco resta un lavoro estremamente faticoso, che richiede grande precisione e maestria. Pochi in Italia hanno le competenze tecniche per fare dei muri in pietra senza l’utilizzo di cemento. Questi esperti artigiani sono i muraglieri. Tra loro c’è Gianluca Longhi, cofondatore di Milarepa, un collettivo di muraglieri che promuove la conoscenza costruttiva di questi manufatti e che sta realizzando il progetto Aquae all’eremo.

Longhi non nasce muragliere, ma apprende quest’arte da adulto. Originario della Lombardia, ha iniziato a fare muri a secco una decina di anni fa. Lavorava a Milano come content writer per un blog. Poi però nel 2008 arriva la crisi economica, la scelta di trasferirsi a Camogli e di iscriversi a un corso di muri a secco a Chiavari. Si è così innamorato del mestiere, diventando muragliere a tempo pieno.

“All’inizio è stata dura. Eravamo sempre lì lì, pronti a lasciare, pronti a cercare un’alternativa, perché non avevamo lavori per coprire tutto l’anno”, dice Longhi. “Adesso invece è la situazione opposta, non sappiamo come gestire le richieste che ci arrivano”.

Anche in virtù delle loro molteplici qualità paesaggistiche e ambientali, i muri a secco stanno riguadagnando popolarità. I posti per frequentare i corsi di formazione per imparare il mestiere vanno esauriti velocemente e, secondo Longhi, la figura del muragliere, nonostante sia un lavoro fisicamente molto duro che si fa prevalentemente a mano, sta diventando sempre più richiesta e ben remunerata.

Questa riscoperta, probabilmente legata anche al riconoscimento dell’arte dei muri a secco come patrimonio immateriale dell’umanità da parte dell’Unesco, avvenuta nel 2018, andrebbe accompagnata da politiche e incentivi mirati per ripopolare territori abbandonati e promuovere la  formazione nelle tecniche costruttive. In questo senso, l’Eremo di Sant’Antonio di Niasca potrebbe essere un esempio per altre parti d’Italia e del Mediterraneo.

Muri a secco in costruzione all’eremo (Antonio Marruffi).

I lavori intanto all’eremo procedono spediti. Nei prossimi mesi, oltre alla realizzazione di workshop e laboratori per diffondere le tecniche costruttive, si cercherà di capire quanta acqua verrà effettivamente recuperata da muri a secco e acquidocci per poi valutare se il modello è riproducibile in altri parti del Mediterraneo dove magari ci sono condizioni di siccità più accentuate.

Anche se qualcosa sarà difficile da riprodurre. “L’eremo rimane un posto magico. Abbiamo la fortuna di prendercene cura, di recuperarlo”, dice Pierantoni. “Chi viene trova un posto ancora incontaminato”.

WEBINAR PROGETTO “AQUAE”

“Oltre al recupero della superficie coltivabile e la preservazione del suolo fertile, oggi si riconosce la fondamentale funzione idrogeologica dei terrazzamenti a secco, che rallentano nei pendii le piogge improvvise e mitigano il fenomeno delle bombe d’acqua”. 

Il progetto “AQUAE” finanziato dal PNRR “Protezione e valorizzazione del paesaggio rurale” dal Parco Portofino e dal Comune di Portofino sperimenta una soluzione per il recupero della risorsa idrica, ricostituendo un versante in stato di avanzato degrado, sfruttando tutte le valenze polifunzionali delle miglior tecniche dei terrazzamenti in pietra a secco.

Qui sono disponibili tutti i contenuti del Webinar dell’8/3/2024 che ha presentato il progetto trattandolo come un “CASO STUDIO REPLICABILE”.

Ruscellamento delle acque sul monte di Portofino

Non abbiamo niente in contrario alle biciclette anzi.. ma pubblichiamo questo intervento uscito il 22/9/2023 su Levante news perché ci interessa il focus sulla gestione delle acque: concetto uscito dai radar dell’umanità, ma che la natura invece, di per sé, gestirebbe benissimo: consapevolezza e attenzione delle nostre azioni sul nostro monte, sono la base della sua tutela.

Buongiorno a tutti Voi,
abito sul Monte di Portofino da molto tempo, potrei dirmi cresciuto con lui. Non ho la sua stessa età, ma stiamo insieme da forse un milione di anni, da quando sono nato e rapidamente cresciuto, sotto una rigogliosa vegetazione, calore e pioggia tropicali.

Poi il clima si è fatto temperato e mi sono adattato alle nuove condizioni, ho rallentato i miei ritmi di crescita e modificato il mio aspetto: se prima ero altissimo, morbido e rubicondo, adesso mi sono assottigliato e imbrunito, rischio di scomparire.
Quando mi sono formato, le temperature elevate e le piogge copiose facevano crescere lussureggianti foreste, che mi proteggevano ed alimentavano senza sosta; la roccia scompariva rapidamente sotto di me trasformandomi in una coltre morbida e nutriente per le radici e gli organismi viventi. Nell’epoca attuale e da quasi dodicimila anni, l’ambiente dove sto è cambiato: le temperature sono miti, le piogge meno abbondanti, il bosco deciduo ha sostituito le foresta sempreverde. Così non riesco più a trasformare rapidamente e profondamente come prima il materiale da cui traggo origine e cresco ben più lentamente. Devo ringraziare il bosco se sono ancora qui e posso ancora ospitare piante e animali, assorbire e depurare l’acqua piovana e alimentare le tante sorgenti del Monte, evitando che finisca dritta in mare: se fosse stato tagliato e sostituito da strade e da case, mi sarei e mi avreste perso per sempre. Invece, proteggendo il Monte dal pascolo e dai tagli boschivi, Vi siete garantiti lo sfruttamento di una risorsa ben più importante e vitale : l’acqua per bere e lavare, per azionare i mulini, per coltivare in ogni periodo dell’anno. Voi non eravate ancora nati, ma stando qui ho assistito a vere e proprie guerre tra le popolazioni del Monte per accaparrarsi le migliori sorgenti; molti insediamenti, come San Fruttuoso, non sarebbero esistiti se non avessero potuto contare sulla mia acqua. E non parlo di storia passata, perché ancora adesso la fornisco a Santa Margherita, a Portofino e a Camogli.

Come faccio? E’ molto semplice: quando piove le fronde, i rami, i cespugli e l’erba rallentano la caduta delle gocce d’acqua, così che non mi scavino e portino via e io possa filtrarla, assorbirla e conservarla dentro di me sino a raggiungere le profondità rocciose, sottraendola al ruscellamento e all’evaporazione. Io, o meglio quello che di me resta di quando mi sono formato, e la roccia sottostante siamo un immenso serbatoio nascosto, che alimenta sorgenti perenni a tutte le quote e anche sottomarine! Qual è il mio segreto, cosa mi rende unico? Avere avuto origine in condizioni diverse da ora, che mi hanno reso molto profondo, poroso e di essermi conservato nel tempo, seppure non del tutto ed ovunque. Sono rimasto in una limitata zona del Monte, dove l’erosione non mi ha portato via, sulla sua sommità o a Terra Rossa, che prende il nome da me. Insomma sono un fossile vivente, sono ciò che resta di epoche passate, ma svolgo ancora tutte le mie funzioni vitali. Anzi, in tempi recenti ho acquisito ancora più importanza, per il ruolo che rivesto contro il cambiamento climatico causato dalle emissioni umane di anidride carbonica. Devo infatti alle mie antiche origini, se sono un eccezionale serbatoio di Carbonio, capace di inglobare e trasformare la materia organica, sottraendola all’atmosfera come nessun altro.
Quanto scrivo non lo dico io, ma autorevoli studi scientifici, cui ho motivo di credere, e non lo faccio per darmi importanza, ma per paura. Ho resistito al tempo, ai cambiamenti climatici, alle guerre, ma adesso sto male. Mi sento ignorato. Come se tutto il bene che ho procurato sino ad ora non contasse niente. Proprio quando sembra si voglia elevare il livello di protezione del Monte di Portofino da Parco regionale a nazionale, il cuore del cuore del Monte e cioè dove sono io, viene usato in modo da perdermi per sempre e quasi rimpiango il tempo in cui mi rubavano e vendevano a sacchi per i giardini delle ville di Portofino e almeno per qualcuno valevo.

Da qualche tempo vengo scavato da un reticolo chilometrico di solchi, sempre più profondi e ripidi, dove oltre alle ruote delle mountain bikes si incanala l’acqua piovana, che mi trascina inesorabilmente con sé. Non so per quanto ancora potrò resistere, sempre più debole e poco, quando il dolore di essere buttato via avrà la meglio su di me.
Vostro Cutanic Acrisol.

*Dietro questo pseudonimo un grande personaggio e studioso che conosce perfettamente la materia e sa esporre la situazione e i rischi con un linguaggio semplice, comprensibile a tutti

Non sappiamo dirvi chi è!
 

Acqua per tutti: rinnoviamo la gestione del nostro territorio!

Dimostrare che il muretto a secco, se costruito “a regola d’arte”, è un manufatto duraturo, strutturale e non fragile come la cultura “grigia” del cemento lo vuol far passare: in Liguria siamo circondati da muretti secolari perfetti! Su questa idea abbiamo fatto molta strada ed ecco il progetto AQUAE che abbiamo presentato per il bando PNRR “Protezione e valorizzazione dell’architettura e del paesaggio rurale”, un antidoto alla siccità.

L’idea è recuperare le acque, non solo dalle falde dei tetti, dal fiume e dalla sorgente, ma anche dal drenaggio dei muretti a secco, raccogliendola nei periodi piovosi e conservandola nella cisterna dell’Eremo per l’irrigazione nei mesi estivi.

Al contrario dei manufatti in cemento i terrazzamenti di “muri a secco”, oltre al recupero della superficie coltivabile e la miglior preservazione del suolo, hanno una fondamentale funzione idrogeologica, con il rallentamento delle piogge improvvise e abbondanti.
Il progetto mira a diversificare gli approvvigionamenti di acqua e studiarne l’efficenza; generare un primo modello sperimentale di muretti a secco e divulgarlo per fare un passo avanti nella cura del paesaggio e nella gestione accurata della risorsa idrica nei paesaggi terrazzati.

Progetto AQUAE: inquadramento territoriale
Progetto AQUAE: stato attuale
Progetto AQUAE: Posizionamento muri a secco- captazione acque drenate, sorgive, meteoriche

Abbiamo vinto l’80%. Siamo comunque  intenzionati ad andare fino in fondo, anche con il tuo sostegno.
L’Eremo di Sant’Antonio è un rifugio escursionistico dedicato ai giovani e agli amanti della natura, con prezzi abbordabili e non ha quindi la forza per coprire il 20% restante.

Puoi sostenerci liberamente collegandoti al QR code qui sotto: qualsiasi importo è una goccia preziosa!

Di quanta acqua abbiamo bisogno?


In passato era molto più evidente questo bisogno primario d’acqua e gli insediamenti erano scelti accuratamente vicino a fonti d’acqua: non a caso l’Eremo di Sant’Antonio di Niasca ha sia il fiume che una sorgente a pochi metri. Allora l’uso era molto più accorto e si aveva la precisa percezione della preziosità dell’acqua sia per usi domestici, sia per l’agricoltura, sia per produrre “lavoro”, cioè energia attraverso la ruota del mulino che trasmetteva il movimento per far girare le macine.

E OGGI? L’impronta idrica della produzione in Italia è circa 70 miliardi di m3 di acqua l’anno. L’agricoltura è il settore più assetato d’Italia con l’85% dell’impronta idrica della produzione, comprendendo l’uso di acqua per la produzione di colture per l’alimentazione umana, al mangime per il bestiame (75%) e per pascolo e allevamento (10%). Il restante 15% dell’impronta idrica della produzione è suddiviso tra produzione industriale (8%) e uso domestico (7%).

L’impronta idrica dei consumi in Italia è di circa 132 miliardi di m3 di acqua l’anno (oltre 6mila litri pro capite al giorno) e comprende anche l’acqua nei beni importati. Da solo, il consumo di cibo (che include sia prodotti agricoli sia di origine animale) contribuisce all’89% dell’impronta idrica totale giornaliera degli italiani.

Il consumo di acqua per usi domestici (per pulire, cucinare, bere, etc.) è solo il 4 % dell’acqua che consumiamo ogni giorno, mentre l’acqua “incorporata” nei prodotti industriali rappresenta il 7%. I prodotti di origine animale (compresi latte, uova, carne e grassi animali) rappresentano quasi il 50% dell’impronta idrica totale dei consumi in Italia. Il consumo di carne, da solo, contribuisce a un terzo dell’impronta idrica totale.

La consapevolezza di questi dati ci hanno stimolato a progettare degli accorgimenti per il nostro (per ora) piccolo orto, che usa solo l’acqua del fiume; e per l’uso domestico dove abbiamo fatto l’impianto in modo tale da non usare acqua potabile nelle cassette dei gabinetti. Ma abbiamo moltissime altre idee in testa!

Fonte: @wwfitalia @wwf @wwf_lombardia

all’Eremo di Sant’Antonio di Niasca meccanismi di molitura per olive, castagne, cortecce per colorare le reti da pesca,

I tempi del cibo 1

Citiamo un brano del libro di massimo Montanari “Gusti del medioevo” che ci ha molto ispirato e ci ricorda le radici profonde del cucinare. Questo testo rappresenta perfettamente la nostra sezione NATURA-RICETTE che a sua volta rappresenta il nostro modo di cucinare per voi

Poiché non c’è vita senza cibo, il tema della cucina ha un ruolo evidentemente centrale, per così dire strategico, nella definizione dei rapporti fra tempo “naturale” e tempo “umano” – ovvero, per intenderci, fra Natura e Cultura, termini simbolicamente contrapposti, ma di fatto intrecciati in una molteplicità di relazioni complesse, per molti versi ambigue, legate alla particolare situazione dell’uomo nel mondo, nella sua duplice identità di oggetto e soggetto dell’azione, elemento, lui stesso, del mondo naturale, vincolato ai suoi ritmi e alle sue leggi, ma in qualche misura artefice (o aspirante tale) del proprio destino. L’uomo che, nello spazio fisico del bacino mediterraneo, a un certo punto impara a fare il pane, mettendo a frutto qualcosa di “naturale” come il grano, però trasformato in un alimento del tutto artificiale (perché il pane non esiste in natura), è un simbolo eloquente di questo atteggiamento ambiguo, che tende a governare i ritmi della natura attraverso i ritmi del lavoro – essi stessi disegnati, in parte, su quelli naturali, ma in parte destinati a forzarli e modificarli. Perciò un alimento così apparentemente “naturale” come il pane può diventare, nelle antiche civiltà mediterranee, il simbolo non tanto della sintonia col mondo naturale, quanto della capacità di emanciparsi dalla natura, conquistando una propria identità civile e umana: «mangiatori di pane» sono per antonomasia gli uomini, in Omero.

Il tempo del cibo è, dunque, sospeso fra tempo naturale e tempo umano – che voglio intendere come tempo della cultura e del lavoro: due termini, a loro volta, da leggere come un’endiadi. 

La produzione del cibo presuppone l’esistenza di una materia prima, di un offerta per così dire – “naturale”. Offerta che però, dal giorno in cui l’uomo esce dal paradiso terrestre, va conquistata col sudore della fronte – e dunque non è più “naturale”, ma implica un lavoro, delle tecniche, dei saperi, delle forme di intervento sui ritmi della natura.

Le piante e gli animali adatti alla sua alimentazione, l’uomo deve incominciare a saperli produrre. Uscito dal tempo immobile dell’eterna primavera edenica, figura terrestre dell’eternità divina, egli deve adeguarsi ai tempi di una natura difficile e capricciosa, mutevole, ingannevole. Il cacciatore deve conoscere i tempi di passaggio della preda, il raccoglitore l’età in cui nascono i frutti. L’agricoltore deve adattarsi alla stagionalità delle piante che si seminano, crescono e poi nascono, per essere raccolte e poi riseminate. Il pastore deve adattarsi ai tempi dell’erba che cresce, degli alberi che offrono frutti alle sue bestie. La dipendenza dai ritmi naturali determina i caratteri di ogni attività destinata al reperimento di cibo, ovverossia il tempo del lavoro nella sua essenziale funzione di garantire la sopravvivenza quotidiana degli uomini.

Monasteri e conventi fra cucina e natura

Il ricettario di padre Gaspare Stanislao Dellepiane – volume datato 1880

di Alberto Girani – tratto dal Libro “Sentieri sacri sul Monte di Portofino”

Leggendo con attenzione la ristampa della Cucina di strettissimo magro di padre Gaspare Stanislao Dellepiane, del 1880 – e scorrendo la biografia di questo acculturato francescano appartenente all’Ordine dei Minimi (voluto da san Francesco da Paola nel 1435), si ricavano, indirettamente, diverse notizie sia di carattere naturalistico sia tali da indurre a riflessioni
sul rapporto fra i religiosi e il promontorio di Portofino attraverso quella che era la loro alimentazione.
Padre Dellepiane manda alle stampe il libro un anno dopo aver lasciato la chiesa di San Nicolò di Capodimonte, che aveva retto dal 1874. Tra l’altro aveva curato la popolazione locale quale medico omeopatico, dimostrando la sua grande conoscenza nel campo dell’erboristeria. Durante il suo soggiorno, dovrebbe avere stilato molte delle 476 ricette pubblicate nel suo volume, utilizzando non si sa in quanta parte antichi testi e tradizioni religiose e locali, ma sicuramente rispettando le severe regole del suo Ordine, che impedivano l’uso di carni, latte, uova e loro derivati.
È interessante notare come a terra, ranocchie e rane, lumache e anguille, stanate dai rii con l’euforbia – il cui veleno induce i pesci a muoversi e a scappare dai rifugi – costituissero una fonte alimentare, ancorché marginale. I pesci la fanno da padrone e – specchio della cultura popolare degli uomini di mare – garantiscono un fattore importante della varietà alimentare proposta dal frate.
Ecco l’elenco dei pesci così come si susseguono nelle ricette. Per quanto concerne il mare, si hanno: acciughe – già citate, ma conservate in barile, in un documento del XIV secolo relativo all’eremo di Sant’Antonio di Niasca –, agone, angelo, argentosa, bianchetti, bolagio, boldrò, bove pesce, buga, capone, caponero, cavalla, caviglione, chiandone, chiozzo, crovello, dentice, fanfano, favotta, ferrazza, ficotto, figaro, gallinella, gronco, imperatore, indorata, lama, lampuga dorata, lecca, luccipo, lucerna rossa e nera, lupazzo, meanta, menola, merluzzo, mormora, morona, morona spinosa, moscardino, mostella, mugine, murena, notola, occhiata, ombrina, orata, palamita, palombo, pappagallo, parago, pavazzo, pelle dura, perchia, pesce prete, pesce re, pesce spada, pesce topo, pescimpiso, porchetto, rasoio, razza, ribello, rombo, ronco, rondine, rondinino, rossetti, salpa, san Pietro, sarago, sardelle, sarpa, scorfina, scorpena, serretta, sgombro, signora pesce, sogliola, sparletto, strombolo, sugherello, tanuta, tompella, tonno, tordo, tremolo, triglie, truggina, zerro.

Nel ricettario non mancano altri prodotti del mare quali i molluschi (arsella, calcinello, polpo, seppia, vongola), un crostaceo, l’aragosta, un rettile e la tartaruga di mare, cucinata al pari della quella di terra. Tra i pesci di acqua dolce – evidentemente acquistati – sono elencati, inoltre, carpa, luccio, pesce persico, tinca e storione, con il suo derivato: il caviale. Non è certo singolare che i pesci costituiscano una percentuale notevole dell’alimentazione dei religiosi, i quali presso l’abbazia della Cervara hanno addirittura costruito una peschiera di notevoli dimensioni.
Relativamente alle piante, si utilizzano – quali ingredienti secondari – pinoli, mandorle, limoni, amarene, fichi, capperi e zafferano. Appaiono anche le officinali, chissà
da quanto coltivate negli orti di contadini, di monasteri e di conventi. La grossa quantità è rappresentata, però, dalle erbe spontanee del territorio: alloro, basilico, borragine, maggiorana, mellissa citrica, menta, nepetella, origano, prezzemolo, rosmarino, salvia e timo.
Se si passa alle verdure, si trova un lungo elenco di tipi piantati nei terreni dei cenobi e in quelli dati con contratti enfiteutici. Tra le specie selvatiche, si rinvengono solo asparagi, bietole, funghi neri e ovuli, a conferma di una distanza con la cucina popolare, dove prevalgono le erbe del preboggion, ossia piante raccolte nei prati, negli uliveti, fra le pietre dei muri a secco e utilizzate in numerose ricette: da crude, in insalata, o – come indica il nome – da bollite, per ottenere contorni o ingredienti fondamentali di alcuni primi piatti.
Notizie sulla vita monastica medievale, relative ai benedettini – ordine rigoroso nel concepire l’alimentazione come esercizio nella penitenza e nella mortificazione – si possono ricavare anche per i religiosi di San Fruttuoso, considerando i diritti di cui godevano i cenobiti.
La regola benedettina è improntata a un’alimentazione sana e naturale, che è condizionata dalla produzione stagionale e diversa da regione a regione, nonché – come è ovvio – da eventi catastrofici quali guerre, epidemie, carestie e mutamenti climatici. A differenza dei Minimi, i seguaci di san Benedetto possono beneficiare di uova e formaggio, in quanto sono precluse solo carni rosse e spezie. Avrebbero potuto avvalersi quindi delle proteine derivate da alcune delle prede dei falconi da caccia, come i colombacci o i piccoli uccelli della macchia.
I falchi del territorio – oggi sono il falco pellegrino, il lodolaio, il gheppio, lo sparviero – almeno dall’inizio del secolo XII sono appannaggio dei monaci e, sicuramente prima del 1162, gli stessi hanno diritti esclusivi sulla pesca e sulla caccia. Da un privilegio solenne di papa Alessandro III sappiamo, infatti, che “[…] ogni portofinese dovrà servirsi unicamente del forno del monastero […] ogni allevatore consegnerà al cenobio tutti i fegati di maiale di oltre un mese e mezzo d’età […] , ogni pescatore in- fine cederà ogni settimana di quaresima due bughe […]”.
Una prima riflessione è legata al fegato di maiale, in quanto le diete – come quella dei minimi e dei benedettini – hanno una grave carenza nell’apporto di vitamina A, presente, invece, in grande quantità nell’alimento, che evidentemente è somministrato ai religiosi per evitare che si ammalino. Fermo restando che ai monaci e ai frati infermi sono accordate specifiche dispense alimentari, il metodo sistematico di approvvigionamento del prodotto da parte dell’abbazia di San Fruttuoso fa pensare o a una particolare concessione in deroga alle severe regole alimentari – licenza che poteva essere data solo dal papa – o a una vera e propria tipicizzazione regionale della cucina del monastero.
La consegna delle boghe in periodo di Quaresima, per giunta, conferma come la qualità del cibo oltre alla sua quantità variassero nel rispetto delle solennità liturgiche. L’alimentazione benedettina – essendo basata su pane, legumi, formaggi, pesce e vino – è infatti parsimoniosa e intercalata da digiuni ed è molto diversa da quella dei ricchi laici del tempo, dalle cui famiglie, comunque, molti monaci provenivano.
Anche nel Medioevo, sicuramente l’alimentazione dei confratelli differisce da quella della popolazione della regione: dal privilegio del 1162 di Alessandro III, emerge che tra alcuni portofinesi è diffuso l’uso del pane, come ha testimoniato lo studioso Gianni Rebora, recentemente scomparso, che ha scritto: “Un alimento destinato soprattutto a chi poteva per- mettersi di pagarne il prezzo […], il contadino non proprietario […] si nutriva male, ricorreva alla polenta (di farro, di fave, di ceci) e solo raramente usava il pane, quasi mai di frumento […]”. Questo prodotto è relativamente diffuso in quel borgo, dove la presenza militare, il commercio marittimo e la pesca creano, per alcune categorie di lavoratori, una situazione economica migliore e tale da affrancarsi dalle condizioni di sopravvivenza, che caratterizzano gli abitanti del territorio nel Medioevo.

Forse non sai che questo territorio è quasi un monte Athos ligure

Questa sezione è dedicata alla sensibilità medioevale che percepiva l’esistenza di Dio dalla bellezza del creato. Allora monaci contadini hanno trovato sul Monte di Portofino un approdo ideale per lo studio, la preghiera ma anche il durissimo lavoro di un’agricoltura eroica.
Frate Andrea dell’Eremo di Sant’Antonio e Frate Benedetto dell’Abbazia di San Fruttuoso (1349)

Monaci, chierici, eremiti e pellegrini trovarono nel medioevo un approdo ideale per la loro spiritualità, e vi fondarono monasteri, chiese, cappelle e vissero in grotte adattate a luoghi di preghiera contemplativa e solitaria.
Un passo dopo l’altro sui sentieri da loro battuti, raggiungendo cinque monumenti puoi riscoprire lo spirito degli uomini che li costruirono e li animarono con i loro ideali, con i loro progetti, con la loro visione del mondo e di Dio.

Acqua che scorre sottoterra tra le rocce

elementi, energia
Questa sezione parla del potere del fuoco, del vento, e sopratutto del mare e del monte che incontrandosi generano un’infinità di sorgenti, abbondanti e perenni. Una ricchezza che ha spinto gli uomini a insediarsi comunque in un territorio ripido e faticoso. L’acqua, il verde lussureggiante, il legno e il calore e tutto il resto
Boschi e uliveti a precipizio sul mare nella valletta di Niasca

Nel monte di Portofino l’acqua da secoli sprizza senza sosta d’inverno e d’estate: sì anche d’estate quando ovunque c’è scarsità d’acqua.
Ecco il segreto: grandi masse d’aria calda provenienti da sud e sature di vapore acqueo per i grandi tratti di mare attraversato, risalgono le coste rocciose: l’ abbassamento di temperatura dell’aria, dovuta all’aumento della quota, determina la condensazione dell’acqua che s’insinua nelle profonde fratture della roccia. Non stupisce che le risorse idriche del Monte siano state sfruttate fin da epoche storiche; un esempio fra tutti è la valle dell’AcquaViva con 35 Mulini a pochi passi dall’Eremo.

Ti sei mai chiesto come poteva sembrare, secoli fa, questo promontorio che stai per attraversare?

Questa sezione è dedicata alla storia dell’insediamento medievali dell’uomo in questo territorio, e come le sue caratteristiche fisiche complicate, hanno determinato la convivenza rispettosa fra l’uomo e la natura
Il Promontorio Portofino
Il promontorio di Portofino e punta Chiappa

Con le sue alte vette, i suoi boschi e le sue coste scoscese di roccia dura che lo ha preservato dall’erosione del tempo, rendendolo un imponente ostacolo sulla line di costa. Ma rendendolo invece il prolungamento sul mare delle montagne alle sue spalle; non era cosa da poco nel medioevo in cui ci si spostava molto a piedi, con percorsi che collegavano i territori interni dietro la Repubblica di Genova, proprio attraverso i monti in un antico percorso di transumanza. Infatti il suo nome antico è Caput Muntis, Capodimonte.