In questa edizione della newsletter Lapilli+ ti raccontiamo di un’iniziativa volta a contrastare l’abbandono e lo spopolamento delle aree rurali attraverso il turismo sostenibile e il recupero del paesaggio storico, con un occhio anche alle sfide che i cambiamenti climatici ci pongono davanti. Quest’esempio arriva dalla Liguria, dal monte di Portofino per l’esattezza. Qui si sta cercando di recuperare il sapere costruttivo dei muri a secco che, per le loro funzioni di regimazione delle acque, potrebbero rivelarsi molto utili nell’attenuare gli effetti di precipitazioni intense così come di periodi di siccità. Speriamo che questa iniziativa possa ispirarti, tanto quanto ha ispirato noi.
Adagiata sulle pendici orientali del monte di Portofino si trova la valle di Niasca, protetta dai venti e ricca di acque. Un tempo dimora di monaci eremiti e poi del barone Giacomo Baratta, ha vissuto anni di abbandono, dal dopoguerra fino a tempi recenti, rispecchiando il destino di molte altre aree dell’entroterra ligure. Da qualche anno a questa parte, però, un gruppo di ragazzi si è messo in testa di recuperare parte della valle. Ha iniziato con la dimora baronale costruita a metà del 1800, con annesso un mulino, trasformandola in un rifugio per escursionisti.
“L’idea era quella di ricreare un luogo che fosse un rifugio escursionistico, un punto di riferimento per il turismo sostenibile e che avesse come focus il rilancio del territorio”, ha spiegato al telefono Luca Pierantoni, uno dei gestori dell’Eremo di Sant’Antonio di Niasca.
Oltre a offrire un tipo di ospitalità alternativa a quella che si può trovare nella Rapallo iper-urbanizzata e nell’esclusiva Portofino, la missione dell’eremo è ora focalizzata sul recupero dell’ambiente circostante e dei tipici terrazzamenti, conosciuti in Liguria anche come “fasce”, cioè strisce di terra coltivabili ricavate lungo i versanti scoscesi grazie alla costruzione di muri a secco.
Così nel 2023 l’eremo ha partecipato e vinto un bando del Piano nazionale di ripresa e resilienza per la “protezione e valorizzazione dell’architettura e del paesaggio rurale” con il progetto Aquae. Al centro del progetto c’è la riabilitazione dei metodi costruttivi del passato per recuperare quanta più acqua possibile.
“Questa idea di ricerca e di captazione dell’acqua era diventata un po’ una nostra fissazione”, spiega l’architetto Antonio Marruffi, che sta seguendo la realizzazione del progetto.
La gestione e il recupero dell’acqua è sempre stata centrale per la vita della valle di Niasca, come testimoniano antichi fossati, canali e cisterne, opere costruite in passato dai monaci eremiti per coltivare i terrazzamenti e far funzionare i mulini per la produzione dell’olio – dove era infatti l’acqua a far muovere le presse usate per schiacciare le olive.
In questo contesto, anche i muri a secco hanno sempre giocato un ruolo fondamentale. “I muretti a secco sono uno dei modi di raccolta delle acque che sono presenti nella valle”, dice Marruffi. Svolgono un’importante funzione di regimazione andando a influire sulla capacità di drenaggio del terreno. Se non viene gestito, infatti, il surplus di acqua cade di terrazzamento in terrazzamento e si accumula. “Nel nostro caso, invece, l’acqua viene raccolta alla base del muro, tramite delle canalizzazioni, sempre in pietra, con dei cosiddetti acquidocci”.
L’acquidoccio è una specie di canale che raccoglie l’acqua in eccesso che non viene trattenuta dal terreno. Nel caso dell’eremo, il muro e l’acquidoccio lavorano insieme, modellando il versante. I muri non sono perfettamente verticali, come le fasce di terreno tra un muro e l’altro non sono perfettamente orizzontali. Le acque convogliano così verso l’acquidoccio per poi confluire dentro un’antica cisterna.
In Liguria si stima che ci siano circa 40mila chilometri di muri a secco e che i terrazzamenti ricoprano 42.636 ettari. Questi muri sono delle opere complesse che richiedono una piccola seppur regolare manutenzione. Sfruttano gli attriti verticali e orizzontali per rimanere in piedi, e se una pietra si sfila, va rimessa a posto affinché il muro mantenga sempre una sua pressione e stabilità. Oltre a drenare l’acqua in eccesso, il muro a secco ha la capacità anche di trattenere l’umidità. Se costruito secondo modalità specifiche, diventa parte integrante del ciclo dell’acqua ed entra in dialogo con l’acqua, lavora con l’acqua.
Ma non solo.
“Il muretto a secco ha una funzione che non è solo quella di tenere su dei terrazzamenti. Dal punto di vista della vegetazione, fa crescere al suo interno delle piccole specie animali”, spiega Marruffi. “Mantiene un habitat al suo interno. La pietra accumula calore di giorno e lo rilascia di notte mitigando e stabilizzando le temperature”. E questo micro habitat creato dal muro a secco è “tutt’altra cosa rispetto a uno in calcestruzzo”.
Solo che per costruire un muro a secco non basta mettere una pietra sopra l’altra, ci vuole una progettazione ben precisa. “La posa delle pietre non è casuale”, dice Marruffi. “Ci sono tanti fattori che richiedono una grande professionalità, più di quanto si possa immaginare”.
Nel momento in cui le valli si spopolano e la conoscenza sulla manutenzione di queste opere viene meno è facile capire come, nel giro di poco tempo, queste strutture possano cadere in stato di abbandono e franare. Ma se mantenute regolarmente, possono durare anche centinaia di anni, contribuire alla stabilità dei versanti, prevenire il dissesto idrogeologico e rendere abitabili e coltivabili i territori impervi.
Ma costruire muri a secco resta un lavoro estremamente faticoso, che richiede grande precisione e maestria. Pochi in Italia hanno le competenze tecniche per fare dei muri in pietra senza l’utilizzo di cemento. Questi esperti artigiani sono i muraglieri. Tra loro c’è Gianluca Longhi, cofondatore di Milarepa, un collettivo di muraglieri che promuove la conoscenza costruttiva di questi manufatti e che sta realizzando il progetto Aquae all’eremo.
Longhi non nasce muragliere, ma apprende quest’arte da adulto. Originario della Lombardia, ha iniziato a fare muri a secco una decina di anni fa. Lavorava a Milano come content writer per un blog. Poi però nel 2008 arriva la crisi economica, la scelta di trasferirsi a Camogli e di iscriversi a un corso di muri a secco a Chiavari. Si è così innamorato del mestiere, diventando muragliere a tempo pieno.
“All’inizio è stata dura. Eravamo sempre lì lì, pronti a lasciare, pronti a cercare un’alternativa, perché non avevamo lavori per coprire tutto l’anno”, dice Longhi. “Adesso invece è la situazione opposta, non sappiamo come gestire le richieste che ci arrivano”.
Anche in virtù delle loro molteplici qualità paesaggistiche e ambientali, i muri a secco stanno riguadagnando popolarità. I posti per frequentare i corsi di formazione per imparare il mestiere vanno esauriti velocemente e, secondo Longhi, la figura del muragliere, nonostante sia un lavoro fisicamente molto duro che si fa prevalentemente a mano, sta diventando sempre più richiesta e ben remunerata.
Questa riscoperta, probabilmente legata anche al riconoscimento dell’arte dei muri a secco come patrimonio immateriale dell’umanità da parte dell’Unesco, avvenuta nel 2018, andrebbe accompagnata da politiche e incentivi mirati per ripopolare territori abbandonati e promuovere la formazione nelle tecniche costruttive. In questo senso, l’Eremo di Sant’Antonio di Niasca potrebbe essere un esempio per altre parti d’Italia e del Mediterraneo.
I lavori intanto all’eremo procedono spediti. Nei prossimi mesi, oltre alla realizzazione di workshop e laboratori per diffondere le tecniche costruttive, si cercherà di capire quanta acqua verrà effettivamente recuperata da muri a secco e acquidocci per poi valutare se il modello è riproducibile in altri parti del Mediterraneo dove magari ci sono condizioni di siccità più accentuate.
Anche se qualcosa sarà difficile da riprodurre. “L’eremo rimane un posto magico. Abbiamo la fortuna di prendercene cura, di recuperarlo”, dice Pierantoni. “Chi viene trova un posto ancora incontaminato”.