DI TERRA E DI MARE è il tema di questa cena in cui ogni portata è inframmezzata da letture: due modi d’essere della Natura e più modi diversi di scriverla. Un viaggio fatto di letture fra onde e cammini, creste e traversate vele e orizzonti, scelte, lette e commentate da Gian Luca Favetto. Non sarà una semplice lettura: le parole di Favetto risuoneranno nel silenzio della natura, svelandoti il legame fra l’uomo la terra e il mare. Favetto è un profondo conoscitore e appassionato di letteratura, scrittore, drammaturgo e critico teatrale, che sostiene: “Leggere a voce alta è meglio, perché meglio e più
profondamente risuona dentro di noi l’esperienza in forma di lettura”. Questa è un’occasione speciale per riscoprire il piacere di ascoltare storie e farle tue, in un luogo che evoca bellezza, tranquillità e riflessione
L’esperienza include la cena e il breve viaggio letterario, tutto al costo di 50€.
Leggendo con attenzione la ristampa della Cucina di strettissimo magro di padre Gaspare Stanislao Dellepiane – volume datato 1880 – e scorrendo la biografia di questo acculturato francescano appartenente all’Ordine dei Minimi (voluto da san Francesco da Paola nel 1435), si ricavano, indirettamente, diverse notizie sia di carattere naturalistico sia tali da indurre a riflessioni sul rapporto fra i religiosi e il promontorio di Portofino attraverso quella che era la loro alimentazione.
Padre Dellepiane manda alle stampe il libro un anno dopo aver lasciato la chiesa di San Nicolò di Capodimonte, che aveva retto dal 1874. Tra l’altro aveva curato la popolazione locale quale medico omeopatico, dimostrando la sua grande conoscenza nel campo dell’erboristeria. Durante il suo soggiorno, dovrebbe avere stilato molte delle 476 ricette pubblicate nel suo volume, utilizzando non si sa in quanta parte antichi testi e tradizioni religiose e locali, ma sicuramente rispettando le severe regole del suo Ordine, che impedivano l’uso di carni, latte, uova e loro derivati.
È interessante notare come a terra, ranocchie e rane, lumache e anguille, stanate dai rii con l’euforbia – il cui veleno induce i pesci a muoversi e a scappare dai rifugi – costituissero una fonte alimentare, ancorché marginale. I pesci la fanno da padrone e – specchio della cultura popolare degli uomini di mare – garantiscono un fattore importante della varietà alimentare proposta dal frate.
Ecco l’elenco dei pesci così come si susseguono nelle ricette. Per quanto concerne il mare, si hanno: acciughe – già citate, ma conservate in barile, in un documento del XIV secolo relativo all’eremo di Sant’Antonio di Niasca –, agone, angelo, argentosa, bianchetti, bolagio, boldrò, bove pesce, buga, capone, caponero, cavalla, caviglione, chiandone, chiozzo, crovello, dentice, fan fano, favotta, ferrazza, ficotto, figaro, gallinella, gronco, imperatore, indorata, lama, lampuga dorata, lecca, luccipo, lucerna rossa e nera, lupazzo, meanta, menola, merluzzo, mormora, morona, morona spinosa, moscardino, mostella, mugine, murena, notola, occhiata, ombrina, orata, palamita, palombo, pappagallo, parago, pavazzo, pelle dura, perchia, pesce prete, pesce re, pesce spada, pesce topo, pescimpiso, porchetto, rasoio, razza, ribello, rombo, ronco, rondine, rondinino, rossetti, salpa, San Pietro, sarago, sardelle, sarpa, scorfina, scorpena, serretta, sgombro, signora pesce, sogliola, sparletto, strombolo, su- gherello, tanuta, tompella, tonno, tordo, tremolo, triglie, truggina, zerro.
Nel ricettario non mancano altri prodotti del mare quali i molluschi (arsella, calcinello, polpo, seppia, vongola), un crostaceo, l’aragosta, un rettile e la tartaruga di mare, cucinata al pari della quella di terra. Tra i pesci di acqua dolce – evidentemente acquistati – sono elencati, inoltre, carpa, luccio, pesce persico, tinca e storione, con il suo derivato: il caviale.
Non è certo singolare che i pesci costituiscano una percentuale note- vole dell’alimentazione dei religiosi, i quali presso l’abbazia della Cervara hanno addi- tittura costruito una peschiera di notevoli dimensioni.
Relativamente alle piante, si utilizzano – quali ingredienti secondari – pinoli, mandorle, limoni, amarene, fichi, capperi e zafferano.
Appaiono anche le officinali, chissà da quanto coltivate negli orti di contadini, di monasteri e di conventi. La grossa quantità è rappresentata, però, dalle erbe spontanee del territorio: alloro, basilico, borragine, maggiorana, mellissa citrica, menta, nepetella, origano, prezzemolo, rosmari- no, salvia e timo.
Se si passa alle verdure, si trova un lungo elenco di tipi piantati nei terreni dei cenobi e in quelli dati con contratti enfiteutici. Tra le specie selvatiche, si rinvengono solo asparagi, bietole, funghi neri e ovuli, a conferma di una distanza con la cucina popolare, dove prevalgono le erbe del preboggion, ossia piante raccolte nei prati, negli uliveti, fra le pietre dei muri a secco e utilizzate in numerose ricette: da crude, in in- salata, o – come indica il nome – da bollite, per ottenere contorni o ingredienti fondamentali di alcuni primi piatti.
Notizie sulla vita monastica medievale, relative ai benedettini – ordine rigoroso nel concepire l’alimentazione come esercizio nella penitenza e nella mortificazione – si possono ricavare anche per i religiosi di San Fruttuoso, considerando i diritti di cui godevano i cenobiti.
La regola benedettina è improntata a un’alimentazione sana e naturale, che è condizionata dalla produzione stagionale e diversa da regione a regione, nonché – come è ovvio – da eventi catastrofici quali guerre, epidemie, carestie e mutamenti climatici. A differenza dei Minimi, i seguaci di san Benedetto possono beneficiare di uova e formaggio, in quanto sono precluse solo
carni rosse e spezie. Avrebbero potuto avvalersi quindi delle proteine derivate da al- cune delle prede dei falconi da caccia, co- me i colombacci o i piccoli uccelli della macchia.
I falchi del territorio – oggi sono il falco pellegrino, il lodolaio, il gheppio, lo sparviero – almeno dall’inizio del secolo XII sono appannaggio dei monaci e, sicuramente prima del 1162, gli stessi hanno diritti esclusivi sulla pesca e sulla caccia. Da un privilegio solenne di papa Alessandro III sappiamo, infatti, che “[…] ogni portofinese dovrà servirsi unicamente del forno del monastero […] ogni allevatore consegnerà al cenobio tutti i fegati di maiale di oltre un mese e mezzo d’età […] , ogni pescatore infine cederà ogni settimana di quaresima due bughe […]”.
Una prima riflessione è legata al fegato di maiale, in quanto le diete – come quella dei minimi e dei benedettini – hanno una gra- ve carenza nell’apporto di vitamina A, pre- sente, invece, in grande quantità nell’ali- mento, che evidentemente è somministra- to ai religiosi per evitare che si ammalino. Fermo restando che ai monaci e ai frati infermi sono accordate specifiche dispense alimentari, il metodo sistematico di approvvigionamento del prodotto da parte dell’abbazia di San Fruttuoso fa pensare o a una particolare concessione in deroga alle severe regole alimentari – licenza che poteva essere data solo dal papa – o a una vera e propria tipicizzazione regionale della cucina del monastero.
La consegna delle boghe in periodo di Quaresima, pergiunta, conferma come la qualità del cibo oltre alla sua quantità variassero nel rispetto delle solennità liturgiche. L’alimentazione benedettina – essendo basata su pane, legumi, formaggi, pesce e vino – è infatti parsimoniosa e in- tercalata da digiuni ed è molto diversa da quella dei ricchi laici del tempo, dalle cui famiglie, comunque, molti monaci provenivano.
Anche nel Medioevo, sicuramente l’alimentazione dei confratelli differisce da quella della popolazione della regione: dal privilegio del 1162 di Alessandro III, emerge che tra alcuni portofinesi è diffuso l’uso del pane, come ha testimoniato lo studioso Gianni Rebora, recentemente scomparso, che ha scritto: “Un alimento destinato soprattutto a chi poteva per- mettersi di pagarne il prezzo […], il conta- dino non proprietario […] si nutriva male, ricorreva alla polenta (di farro, di fave, di ceci) e solo raramente usava il pane, qua- si mai di frumento […]”. Questo prodotto è relativamente diffuso in quel borgo, dove la presenza militare, il commercio marittimo e la pesca creano, per alcune categorie di lavoratori, una situazione economica migliore e tale da affrancarsi dalle condizioni di sopravvivenza, che caratterizzano gli abitanti del territorio nel Medioevo
Il pane è un alimento straordinario che fa parte di un’alimentazione sana ed equilibrata, ma la qualità cambia molto da pane a pane.
Con Valentina farai il pane come un tempo, quando la pasta madre veniva conservata, custodita e curata da ogni famiglia contadina che un giorno a settimana impastava il pane e lo cuocevano nel forno a legna del paese; questo pane durava una settimana, e se avanzava veniva riutilizzato in mille modi (prima di andare agli animali da cortile)
Il pane che proveremo a fare nel workshop non ha additivi o conservanti, è ottenuto da grani antichi e cereali non trattati o integrali scelti con grande cura, macinati a mano in un mulino casalingo.
I recenti processi industriali di panificazione che permettono di velocizzare la lievitazione, si sono rivelati molto indigesti; così negli ultimi anni c’è stato un vero e proprio ritorno ai sapori del pane di una volta con la riscoperta della panificazione naturale che rappresenta una vera svolta non solo di gusto ma soprattutto nella consapevolezza dei benefici per la salute dell’organismo.
Per questo molti di noi hanno provato a fare il pane in casa con vari metodi, ma farlo come una volta in tutti i passaggi ci consentirà di capire molti segreti, modi e trucchi della panificazione naturale e affinare il nostro gusto su ciò che è buono e sano veramente.
Il costo 60 € a persona incluso il pranzo. La sede è l’Eremo di Sant’Antonio di Niasca, entroterra di Portofino (GE)
Per info e prenotazioni Valentina cel. +39 338 3385204
IL WORKSHOP è tenuto da Valentina Trucco (cel. +39 338 3385204) che racconta di sé: “Con l’inizio del 2020 mi sono licenziata, dopo dieci anni di comunicazione a Milano, un passo che rimandavo da anni perché pensavo di poter far vivere un lavoro molto amato e gli interessi da coltivare, ma il tempo per questi ultimi non era mai abbastanza. Poi, in un batti baleno, complice un un evento inatteso, decisi che era venuto il momento di lasciare Milano e il mio lavoro per buttarmi anima e corpo nel “pane”, perché il pane? Perché mi piace! E perché quello che trovavo in giro non era di mio gradimento. Il pane che ogni settimana continuo a imparare a fare è il pane che comprerei 🙂 Il pane è tornare all’essenziale, ho cercato di imparare a farlo come si faceva un tempo: impastando a mano, macinando da sé la farina, raccogliendo l’acqua di fonte e cuocendo a legna.
Quest’anno ho seminato in un piccolo campo una delle semenze autoctone che i vecchi seminavano e mi piacerebbe un giorno poter usare solo il mio grano. Ma per il momento ho due bellissime realtà in Piemonte da cui prendo una miscela di grani antichi e la segale.
Per cercare di cambiare i ritmi a cui mi ero abituata, ho deciso di fare il pane su ordinazione una volta a settimana e di consegnarlo da San Rocco di Camogli dove vivo fino a Genova, per poter scambiare due parole con i miei clienti ogni settimana”.