Tracciare linee sulla sabbia (dalla news lettere Lapilli+)

Parlando di coste si può davvero parlare di coesistenza bilanciata tra sfera pubblica e sfera privata, o è solo un’illusione?

È una mattina rovente di inizio luglio ad Atene. Noi – Vasiliki e Carolina – ci stiamo concedendo qualche giorno di pausa dai nostri dottorati nel Regno Unito, cercando di non pensare a biblioteche e lavoro sul campo per immergerci nell’ozio dell’estate greca. Vasiliki, cresciuta ad Atene, è tornata a casa per una visita e Carolina l’ha accompagnata per una breve vacanza. Stiamo guidando lungo la costa con l’aria condizionata accesa e i finestrini socchiusi, nel tentativo di tenere a bada il caldo. Alla ricerca disperata di un posto dove fare un tuffo, deviamo verso una piccola insenatura che Vasiliki ha sempre chiamato “la spiaggia del nonno”, senza mai sapere se avesse un nome ufficiale. Carolina ha già fatto il giro dei luoghi imperdibili della città e ora è ansiosa di conoscere il punto di vista della gente del posto. Del resto, entrambe studiamo l’esperienza vissuta delle città – come le configurazioni spaziali modellino identità e comunità – e a quanto pare questo modo di guardare il mondo è difficile da abbandonare, anche in vacanza.

La spaiggetta di Niasca sotto di noi; raro caso di spiaggia libera nel golfo del Tigullio in Liguria

Il mare si intravede in lontananza, appena oltre un ampio tratto di asfalto che sembra fungere da parcheggio improvvisato. La spiaggia rimane indecifrabile: non sappiamo ancora che tipo di luogo sia, né a chi appartenga. Un uomo è fermo proprio prima dell’inizio della sabbia, sotto un po’ d’ombra. Esitiamo alla vista di un cartello “Vietato parcheggiare”. Rallentiamo e abbassiamo il finestrino. “Ci fermiamo solo per un bagno veloce”, diciamo. Lui sorride e annuisce, facendoci cenno di entrare con un gesto al tempo stesso permissivo e ambiguo. A un certo punto, pensiamo, l’accesso alla spiaggia – nella cosiddetta “Riviera ateniese” e non solo – ha smesso di essere considerato un diritto e ha iniziato a sembrare un favore.

Quando arriviamo di fronte alla riva, la spiaggia ci appare divisa in due: a destra è gestita da privati, mentre a sinistra si estende senza rivendicazioni. Non è sempre stato così, ricorda Vasiliki. È stato nel 2019 che il comune di Vari-Voula-Vouliagmeni, uno dei sobborghi a sud di Atene, ha concesso per la prima volta a una società privata il permesso di gestire quella che era stata designata come spiaggia attrezzata: lettini, ombrelloni, servizio ristorante. L’accordo era chiaro: l’operatore privato poteva occupare fino al 50 per cento della spiaggia, lasciando l’altra metà aperta e gratuita per l’uso pubblico. Tuttavia, il documento non era accompagnato da una mappa dettagliata con linee guida su dove potessero essere collocati tavoli, ombrelloni e lettini a riva.

Questa non è solo una storia locale. In tutto il Mediterraneo e oltre, le coste vengono sempre più spesso ridisegnate, non con recinzioni o decreti formali, ma attraverso una coreografia più sottile fatta di cartelli, tariffe, permessi e assenze. In Italia, ad esempio, il 43 per cento delle spiagge è gestito privatamente, con alcune regioni come la Liguria che vedono quasi il 70 per cento dei propri litorali sotto il controllo di operatori privati. In Libano, si stima che fino all’80 per cento dei circa 220 chilometri di costa non sia accessibile al pubblico.

Le rocce sono state rimosse. I cespugli spariti. Gli alberi sradicati. La pendenza del paesaggio modificata. Al loro posto è arrivata della sabbia ordinata, importata, grossolana, di un pallore innaturale, sparsa su quello che un tempo era un litorale ruvido e irregolare. Ciò che era stato autorizzato come stagionale e con un impatto minimo, come un pontile galleggiante appoggiato delicatamente sul fondale per sei mesi l’anno, è diventato una piattaforma permanente che si protende nell’acqua.

E tutto questo per 73 euro al metro quadro all’anno. Il contratto, sulla carta, copre 380 metri quadrati, ma anche questa cifra è variabile nella pratica, scollegata dalla reale superficie trasformata e utilizzata. Per 27.740 euro l’anno, un tratto pregiato di costa è stato riconfigurato, recintato e monetizzato. Per curiosità, facciamo una rapida ricerca su Google. La spiaggia è gestita da un hotel di lusso nelle vicinanze, il che spiega i furgoni neri che discreti arrivano a intervalli, scaricando ospiti stranieri con borse da spiaggia con il brand dell’hotel. Nessun prezzo è indicato né sul sito dell’hotel né su quello della spiaggia. Solo attraverso un sito di notizie greco troviamo qualche riferimento concreto: un ombrellone con due lettini costa 105 euro nei giorni feriali e 150 euro nel weekend. Una cabana costa 160 euro dal lunedì al venerdì, 220 euro il sabato e la domenica.

La monetizzazione del tempo libero qui non è niente di nuovo, anzi, sta diventando sempre più comune in tutto il mondo. In molte aree costiere, gli spazi vengono plasmati per servire turisti e interessi privati, mentre la gente del posto si ritrova progressivamente tagliata fuori. Eppure, a prima vista, tutto sembra scorrere senza interruzioni. Non ci sono corde, cartelli o segni evidenti che indichino dove finisca il pubblico e inizi il privato.

Qualche persona si muove tra le due zone – abbastanza da alimentare l’illusione di un confine non rigido. Alcuni lasciano le loro cabane per fare una breve passeggiata lungo la spiaggia libera. Altri, dal lato pubblico, si avvicinano a quello attrezzato, fermandosi vicino alla linea invisibile dove iniziano i lettini. La gente scatta foto, tante. Sul lato libero, i bagnanti posano con la spiaggia privata sullo sfondo, usando gli ombrelloni ordinati e la sabbia curata come scenario. Sul lato privato, le persone scattano foto verso il tratto non curato, roccioso, verde, un po’ selvaggio. Tutti sembrano volersi appropriare del paesaggio altrui, cercando di vivere un’esperienza che non appartiene a loro.

Il mare è il grande livellatore. Una volta in acqua, tutte le linee sfumano. Anche il pontile contribuisce a questa illusione. Pur trovandosi nella zona privatizzata, è fisicamente accessibile a tutti. I bambini lo adorano. Ci avviciniamo per guardare la spiaggia dal loro punto di vista e restiamo un po’ sul pontile. Ci sorprendiamo a pensare a quanto siano gentili a permetterci di restare – il punto di riferimento è cambiato, abbiamo interiorizzato così profondamente l’impronta della privatizzazione che l’accesso, quando non è negato, ci sembra un atto di benevolenza. In generale, questa sensazione di “generosità” maschera l’asimmetria di potere sottostante: l’accesso è concesso, ma sempre in modo condizionato e secondo i termini definiti dal controllo privato. Alla fine, la benevolenza diventa un meccanismo sottile di esclusione, che consente alla privatizzazione di apparire civile.

È finalmente il nostro momento di entrare in mare per una nuotata. Dopo poche bracciate, ci troviamo vicino a una piccola terrazza artificiale con una panchina in pietra. Decidiamo di salirci sopra. Da questo punto, possiamo vedere un’altra spiaggia, dove alcuni yacht sono allineati in silenziosa disciplina. Sulla spiaggia, ogni ombrellone è sistemato con cura, ogni asciugamano ben disteso su un lettino. Da qui, è difficile non chiedersi: è questa la direzione verso cui stiamo andando? Un futuro in cui il pubblico è costretto ad accontentarsi di ciò che resta? Il mare sembra ancora aperto, ma la riva racconta già un’altra storia.

In tutto il mondo, dall’Indonesia alla Grecia, coste un tempo condivise stanno silenziosamente passando in mani private. A Bali, nuove leggi regionali sono state introdotte per impedire ai resort di recintare le spiagge, riaffermando che nessun tratto di litorale dovrebbe essere di proprietà privata. In Italia, quasi metà della costa è vincolata da concessioni a lungo termine, spingendo l’Unione europea a intervenire e gruppi di attivisti come Mare Libero a protestare. In Turchia, una normativa recente consente lo sviluppo turistico in aree costiere boschive tradizionalmente protette dalla costituzione e dalle leggi ambientali e costiere purché siano tecnicamente “aperte al pubblico”, suscitando i timori di chi difende i diritti civili che questa vaga formulazione possa spianare la strada a una privatizzazione di fatto delle aree costiere. È sempre più evidente che, se non si interviene, gli ultimi luoghi aperti a tutti potrebbero svanire silenziosamente e con loro le opportunità di incontro della comunità in un luogo condiviso che accoglie tutti, non solo chi se lo può permettere. 

E quindi, la domanda rimane: si può davvero parlare di coesistenza bilanciata tra sfera pubblica e sfera privata, o è solo un’illusione?

Vasiliki Poula e Carolina Rota