Dimostrare che il muretto a secco, se costruito “a regola d’arte”, è un manufatto duraturo, strutturale e non fragile come la cultura “grigia” del cemento lo vuol far passare: in Liguria siamo circondati da muretti secolari perfetti! Su questa idea abbiamo fatto molta strada ed ecco il progetto AQUAE che abbiamo presentato per il bando PNRR “Protezione e valorizzazione dell’architettura e del paesaggio rurale”, un antidoto alla siccità.
L’idea è recuperare le acque, non solo dalle falde dei tetti, dal fiume e dalla sorgente, ma anche dal drenaggio dei muretti a secco, raccogliendola nei periodi piovosi e conservandola nella cisterna dell’Eremo per l’irrigazione nei mesi estivi.
Al contrario dei manufatti in cemento i terrazzamenti di “muri a secco”, oltre al recupero della superficie coltivabile e la miglior preservazione del suolo, hanno una fondamentale funzione idrogeologica, con il rallentamento delle piogge improvvise e abbondanti. Il progetto mira a diversificare gli approvvigionamenti di acqua e studiarne l’efficenza; generare un primo modello sperimentale di muretti a secco e divulgarlo per fare un passo avanti nella cura del paesaggio e nella gestione accurata della risorsa idrica nei paesaggi terrazzati.
Progetto AQUAE: inquadramento territorialeProgetto AQUAE: stato attualeProgetto AQUAE: Posizionamento muri a secco- captazione acque drenate, sorgive, meteoriche
Abbiamo vinto l’80%. Siamo comunque intenzionati ad andare fino in fondo, anche con il tuo sostegno. L’Eremo di Sant’Antonio è un rifugio escursionistico dedicato ai giovani e agli amanti della natura, con prezzi abbordabili e non ha quindi la forza per coprire il 20% restante.
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In passato era molto più evidente questo bisogno primario d’acqua e gli insediamenti erano scelti accuratamente vicino a fonti d’acqua: non a caso l’Eremo di Sant’Antonio di Niasca ha sia il fiume che una sorgente a pochi metri. Allora l’uso era molto più accorto e si aveva la precisa percezione della preziosità dell’acqua sia per usi domestici, sia per l’agricoltura, sia per produrre “lavoro”, cioè energia attraverso la ruota del mulino che trasmetteva il movimento per far girare le macine.
E OGGI? L’impronta idrica della produzione in Italia è circa 70 miliardi di m3 di acqua l’anno. L’agricoltura è il settore più assetato d’Italia con l’85% dell’impronta idrica della produzione, comprendendo l’uso di acqua per la produzione di colture per l’alimentazione umana, al mangime per il bestiame (75%) e per pascolo e allevamento (10%). Il restante 15% dell’impronta idrica della produzione è suddiviso tra produzione industriale (8%) e uso domestico (7%).
L’impronta idrica dei consumi in Italia è di circa 132 miliardi di m3 di acqua l’anno (oltre 6mila litri pro capite al giorno) e comprende anche l’acqua nei beni importati. Da solo, il consumo di cibo (che include sia prodotti agricoli sia di origine animale) contribuisce all’89% dell’impronta idrica totale giornaliera degli italiani.
Il consumo di acqua per usi domestici (per pulire, cucinare, bere, etc.) è solo il 4 % dell’acqua che consumiamo ogni giorno, mentre l’acqua “incorporata” nei prodotti industriali rappresenta il 7%. I prodotti di origine animale (compresi latte, uova, carne e grassi animali) rappresentano quasi il 50% dell’impronta idrica totale dei consumi in Italia. Il consumo di carne, da solo, contribuisce a un terzo dell’impronta idrica totale.
La consapevolezza di questi dati ci hanno stimolato a progettare degli accorgimenti per il nostro (per ora) piccolo orto, che usa solo l’acqua del fiume; e per l’uso domestico dove abbiamo fatto l’impianto in modo tale da non usare acqua potabile nelle cassette dei gabinetti. Ma abbiamo moltissime altre idee in testa!
Il ricettario di padre Gaspare Stanislao Dellepiane – volume datato 1880
di Alberto Girani – tratto dal Libro “Sentieri sacri sul Monte di Portofino”
Leggendo con attenzione la ristampa della Cucina di strettissimo magro di padre Gaspare Stanislao Dellepiane, del 1880 – e scorrendo la biografia di questo acculturato francescano appartenente all’Ordine dei Minimi (voluto da san Francesco da Paola nel 1435), si ricavano, indirettamente, diverse notizie sia di carattere naturalistico sia tali da indurre a riflessioni sul rapporto fra i religiosi e il promontorio di Portofino attraverso quella che era la loro alimentazione. Padre Dellepiane manda alle stampe il libro un anno dopo aver lasciato la chiesa di San Nicolò di Capodimonte, che aveva retto dal 1874. Tra l’altro aveva curato la popolazione locale quale medico omeopatico, dimostrando la sua grande conoscenza nel campo dell’erboristeria. Durante il suo soggiorno, dovrebbe avere stilato molte delle 476 ricette pubblicate nel suo volume, utilizzando non si sa in quanta parte antichi testi e tradizioni religiose e locali, ma sicuramente rispettando le severe regole del suo Ordine, che impedivano l’uso di carni, latte, uova e loro derivati. È interessante notare come a terra, ranocchie e rane, lumache e anguille, stanate dai rii con l’euforbia – il cui veleno induce i pesci a muoversi e a scappare dai rifugi – costituissero una fonte alimentare, ancorché marginale. I pesci la fanno da padrone e – specchio della cultura popolare degli uomini di mare – garantiscono un fattore importante della varietà alimentare proposta dal frate. Ecco l’elenco dei pesci così come si susseguono nelle ricette. Per quanto concerne il mare, si hanno: acciughe – già citate, ma conservate in barile, in un documento del XIV secolo relativo all’eremo di Sant’Antonio di Niasca –, agone, angelo, argentosa, bianchetti, bolagio, boldrò, bove pesce, buga, capone, caponero, cavalla, caviglione, chiandone, chiozzo, crovello, dentice, fanfano, favotta, ferrazza, ficotto, figaro, gallinella, gronco, imperatore, indorata, lama, lampuga dorata, lecca, luccipo, lucerna rossa e nera, lupazzo, meanta, menola, merluzzo, mormora, morona, morona spinosa, moscardino, mostella, mugine, murena, notola, occhiata, ombrina, orata, palamita, palombo, pappagallo, parago, pavazzo, pelle dura, perchia, pesce prete, pesce re, pesce spada, pesce topo, pescimpiso, porchetto, rasoio, razza, ribello, rombo, ronco, rondine, rondinino, rossetti, salpa, san Pietro, sarago, sardelle, sarpa, scorfina, scorpena, serretta, sgombro, signora pesce, sogliola, sparletto, strombolo, sugherello, tanuta, tompella, tonno, tordo, tremolo, triglie, truggina, zerro.
Nel ricettario non mancano altri prodotti del mare quali i molluschi (arsella, calcinello, polpo, seppia, vongola), un crostaceo, l’aragosta, un rettile e la tartaruga di mare, cucinata al pari della quella di terra. Tra i pesci di acqua dolce – evidentemente acquistati – sono elencati, inoltre, carpa, luccio, pesce persico, tinca e storione, con il suo derivato: il caviale. Non è certo singolare che i pesci costituiscano una percentuale notevole dell’alimentazione dei religiosi, i quali presso l’abbazia della Cervara hanno addirittura costruito una peschiera di notevoli dimensioni. Relativamente alle piante, si utilizzano – quali ingredienti secondari – pinoli, mandorle, limoni, amarene, fichi, capperi e zafferano. Appaiono anche le officinali, chissà da quanto coltivate negli orti di contadini, di monasteri e di conventi. La grossa quantità è rappresentata, però, dalle erbe spontanee del territorio: alloro, basilico, borragine, maggiorana, mellissa citrica, menta, nepetella, origano, prezzemolo, rosmarino, salvia e timo. Se si passa alle verdure, si trova un lungo elenco di tipi piantati nei terreni dei cenobi e in quelli dati con contratti enfiteutici. Tra le specie selvatiche, si rinvengono solo asparagi, bietole, funghi neri e ovuli, a conferma di una distanza con la cucina popolare, dove prevalgono le erbe del preboggion, ossia piante raccolte nei prati, negli uliveti, fra le pietre dei muri a secco e utilizzate in numerose ricette: da crude, in insalata, o – come indica il nome – da bollite, per ottenere contorni o ingredienti fondamentali di alcuni primi piatti. Notizie sulla vita monastica medievale, relative ai benedettini – ordine rigoroso nel concepire l’alimentazione come esercizio nella penitenza e nella mortificazione – si possono ricavare anche per i religiosi di San Fruttuoso, considerando i diritti di cui godevano i cenobiti. La regola benedettina è improntata a un’alimentazione sana e naturale, che è condizionata dalla produzione stagionale e diversa da regione a regione, nonché – come è ovvio – da eventi catastrofici quali guerre, epidemie, carestie e mutamenti climatici. A differenza dei Minimi, i seguaci di san Benedetto possono beneficiare di uova e formaggio, in quanto sono precluse solo carni rosse e spezie. Avrebbero potuto avvalersi quindi delle proteine derivate da alcune delle prede dei falconi da caccia, come i colombacci o i piccoli uccelli della macchia. I falchi del territorio – oggi sono il falco pellegrino, il lodolaio, il gheppio, lo sparviero – almeno dall’inizio del secolo XII sono appannaggio dei monaci e, sicuramente prima del 1162, gli stessi hanno diritti esclusivi sulla pesca e sulla caccia. Da un privilegio solenne di papa Alessandro III sappiamo, infatti, che “[…] ogni portofinese dovrà servirsi unicamente del forno del monastero […] ogni allevatore consegnerà al cenobio tutti i fegati di maiale di oltre un mese e mezzo d’età […] , ogni pescatore in- fine cederà ogni settimana di quaresima due bughe […]”. Una prima riflessione è legata al fegato di maiale, in quanto le diete – come quella dei minimi e dei benedettini – hanno una grave carenza nell’apporto di vitamina A, presente, invece, in grande quantità nell’alimento, che evidentemente è somministrato ai religiosi per evitare che si ammalino. Fermo restando che ai monaci e ai frati infermi sono accordate specifiche dispense alimentari, il metodo sistematico di approvvigionamento del prodotto da parte dell’abbazia di San Fruttuoso fa pensare o a una particolare concessione in deroga alle severe regole alimentari – licenza che poteva essere data solo dal papa – o a una vera e propria tipicizzazione regionale della cucina del monastero. La consegna delle boghe in periodo di Quaresima, per giunta, conferma come la qualità del cibo oltre alla sua quantità variassero nel rispetto delle solennità liturgiche. L’alimentazione benedettina – essendo basata su pane, legumi, formaggi, pesce e vino – è infatti parsimoniosa e intercalata da digiuni ed è molto diversa da quella dei ricchi laici del tempo, dalle cui famiglie, comunque, molti monaci provenivano. Anche nel Medioevo, sicuramente l’alimentazione dei confratelli differisce da quella della popolazione della regione: dal privilegio del 1162 di Alessandro III, emerge che tra alcuni portofinesi è diffuso l’uso del pane, come ha testimoniato lo studioso Gianni Rebora, recentemente scomparso, che ha scritto: “Un alimento destinato soprattutto a chi poteva per- mettersi di pagarne il prezzo […], il contadino non proprietario […] si nutriva male, ricorreva alla polenta (di farro, di fave, di ceci) e solo raramente usava il pane, quasi mai di frumento […]”. Questo prodotto è relativamente diffuso in quel borgo, dove la presenza militare, il commercio marittimo e la pesca creano, per alcune categorie di lavoratori, una situazione economica migliore e tale da affrancarsi dalle condizioni di sopravvivenza, che caratterizzano gli abitanti del territorio nel Medioevo.
Questa sezione è dedicata alla sensibilità medioevale che percepiva l’esistenza di Dio dalla bellezza del creato. Allora monaci contadini hanno trovato sul Monte di Portofino un approdo ideale per lo studio, la preghiera ma anche il durissimo lavoro di un’agricoltura eroica.Frate Andrea dell’Eremo di Sant’Antonio e Frate Benedetto dell’Abbazia di San Fruttuoso (1349)
Monaci, chierici, eremiti e pellegrini trovarono nel medioevo un approdo ideale per la loro spiritualità, e vi fondarono monasteri, chiese, cappelle e vissero in grotte adattate a luoghi di preghiera contemplativa e solitaria. Un passo dopo l’altro sui sentieri da loro battuti, raggiungendo cinque monumenti puoi riscoprire lo spirito degli uomini che li costruirono e li animarono con i loro ideali, con i loro progetti, con la loro visione del mondo e di Dio.
Questa sezione è dedicata alla capacità di utilizzare i materiali disponibili sul territorio, per costruire ciò che serviva alla vita quotidiana, con tecniche tradizionali. Le pratiche tradizionali sono molto interessanti perché risolvono in maniera integrata i problemi della gestione accurata del territorio per questo vanno rivalutate: pensa, per esempio, alla pulizia del bosco e all’uso del legno per costruire e per scaldarsi. Sono il frutto di tecniche condivise e affinate per generazioni. Legno di castagno: ottimo per costruzioni che sfidano le intemperie: con la sua carica di tannino non marcisce facilmente!
In un territorio così impervio tutto ciò che era a portata di mano era preferibile, e l’ingegno costruttivo trovava soluzione non di rado anche esteticamente curate, con quello che trovava. Nel Parco di Portofino i boschi, ricoprono ancora circa la metà della superficie, arrivando spesso fino al mare. Del legno, “principe” di tutti i materiali da costruzione, ben si conoscevano le diverse caratteristiche: delle pinete e lecceti dell’assolato versante Sud e dei castagni, carpini neri, roverelle e ornielli del fresco versante Nord e della valle del monte. Il resto è roccia, ben più dura del legno eppure ha avuto una funzione costruttiva cruciale per questo paesaggio: con la roccia l’uomo ha modellato il paesaggio coi terrazzamenti, detti “fasce”. I terrazzamenti, come ogni pratica tradizionale, sono allo stesso tempo un modo di proteggere un pendio, diminuire la pendenza dei versanti, rendere più agevole l’area coltivabile, ricostituire il suolo, raccogliere e distribuire l’acqua.