Ruscellamento delle acque sul monte di Portofino

Non abbiamo niente in contrario alle biciclette anzi.. ma pubblichiamo questo intervento uscito il 22/9/2023 su Levante news perché ci interessa il focus sulla gestione delle acque: concetto uscito dai radar dell’umanità, ma che la natura invece, di per sé, gestirebbe benissimo: consapevolezza e attenzione delle nostre azioni sul nostro monte, sono la base della sua tutela.

Buongiorno a tutti Voi,
abito sul Monte di Portofino da molto tempo, potrei dirmi cresciuto con lui. Non ho la sua stessa età, ma stiamo insieme da forse un milione di anni, da quando sono nato e rapidamente cresciuto, sotto una rigogliosa vegetazione, calore e pioggia tropicali.

Poi il clima si è fatto temperato e mi sono adattato alle nuove condizioni, ho rallentato i miei ritmi di crescita e modificato il mio aspetto: se prima ero altissimo, morbido e rubicondo, adesso mi sono assottigliato e imbrunito, rischio di scomparire.
Quando mi sono formato, le temperature elevate e le piogge copiose facevano crescere lussureggianti foreste, che mi proteggevano ed alimentavano senza sosta; la roccia scompariva rapidamente sotto di me trasformandomi in una coltre morbida e nutriente per le radici e gli organismi viventi. Nell’epoca attuale e da quasi dodicimila anni, l’ambiente dove sto è cambiato: le temperature sono miti, le piogge meno abbondanti, il bosco deciduo ha sostituito le foresta sempreverde. Così non riesco più a trasformare rapidamente e profondamente come prima il materiale da cui traggo origine e cresco ben più lentamente. Devo ringraziare il bosco se sono ancora qui e posso ancora ospitare piante e animali, assorbire e depurare l’acqua piovana e alimentare le tante sorgenti del Monte, evitando che finisca dritta in mare: se fosse stato tagliato e sostituito da strade e da case, mi sarei e mi avreste perso per sempre. Invece, proteggendo il Monte dal pascolo e dai tagli boschivi, Vi siete garantiti lo sfruttamento di una risorsa ben più importante e vitale : l’acqua per bere e lavare, per azionare i mulini, per coltivare in ogni periodo dell’anno. Voi non eravate ancora nati, ma stando qui ho assistito a vere e proprie guerre tra le popolazioni del Monte per accaparrarsi le migliori sorgenti; molti insediamenti, come San Fruttuoso, non sarebbero esistiti se non avessero potuto contare sulla mia acqua. E non parlo di storia passata, perché ancora adesso la fornisco a Santa Margherita, a Portofino e a Camogli.

Come faccio? E’ molto semplice: quando piove le fronde, i rami, i cespugli e l’erba rallentano la caduta delle gocce d’acqua, così che non mi scavino e portino via e io possa filtrarla, assorbirla e conservarla dentro di me sino a raggiungere le profondità rocciose, sottraendola al ruscellamento e all’evaporazione. Io, o meglio quello che di me resta di quando mi sono formato, e la roccia sottostante siamo un immenso serbatoio nascosto, che alimenta sorgenti perenni a tutte le quote e anche sottomarine! Qual è il mio segreto, cosa mi rende unico? Avere avuto origine in condizioni diverse da ora, che mi hanno reso molto profondo, poroso e di essermi conservato nel tempo, seppure non del tutto ed ovunque. Sono rimasto in una limitata zona del Monte, dove l’erosione non mi ha portato via, sulla sua sommità o a Terra Rossa, che prende il nome da me. Insomma sono un fossile vivente, sono ciò che resta di epoche passate, ma svolgo ancora tutte le mie funzioni vitali. Anzi, in tempi recenti ho acquisito ancora più importanza, per il ruolo che rivesto contro il cambiamento climatico causato dalle emissioni umane di anidride carbonica. Devo infatti alle mie antiche origini, se sono un eccezionale serbatoio di Carbonio, capace di inglobare e trasformare la materia organica, sottraendola all’atmosfera come nessun altro.
Quanto scrivo non lo dico io, ma autorevoli studi scientifici, cui ho motivo di credere, e non lo faccio per darmi importanza, ma per paura. Ho resistito al tempo, ai cambiamenti climatici, alle guerre, ma adesso sto male. Mi sento ignorato. Come se tutto il bene che ho procurato sino ad ora non contasse niente. Proprio quando sembra si voglia elevare il livello di protezione del Monte di Portofino da Parco regionale a nazionale, il cuore del cuore del Monte e cioè dove sono io, viene usato in modo da perdermi per sempre e quasi rimpiango il tempo in cui mi rubavano e vendevano a sacchi per i giardini delle ville di Portofino e almeno per qualcuno valevo.

Da qualche tempo vengo scavato da un reticolo chilometrico di solchi, sempre più profondi e ripidi, dove oltre alle ruote delle mountain bikes si incanala l’acqua piovana, che mi trascina inesorabilmente con sé. Non so per quanto ancora potrò resistere, sempre più debole e poco, quando il dolore di essere buttato via avrà la meglio su di me.
Vostro Cutanic Acrisol.

*Dietro questo pseudonimo un grande personaggio e studioso che conosce perfettamente la materia e sa esporre la situazione e i rischi con un linguaggio semplice, comprensibile a tutti

Non sappiamo dirvi chi è!
 

I tempi del cibo 1

Citiamo un brano del libro di massimo Montanari “Gusti del medioevo” che ci ha molto ispirato e ci ricorda le radici profonde del cucinare. Questo testo rappresenta perfettamente la nostra sezione NATURA-RICETTE che a sua volta rappresenta il nostro modo di cucinare per voi

Poiché non c’è vita senza cibo, il tema della cucina ha un ruolo evidentemente centrale, per così dire strategico, nella definizione dei rapporti fra tempo “naturale” e tempo “umano” – ovvero, per intenderci, fra Natura e Cultura, termini simbolicamente contrapposti, ma di fatto intrecciati in una molteplicità di relazioni complesse, per molti versi ambigue, legate alla particolare situazione dell’uomo nel mondo, nella sua duplice identità di oggetto e soggetto dell’azione, elemento, lui stesso, del mondo naturale, vincolato ai suoi ritmi e alle sue leggi, ma in qualche misura artefice (o aspirante tale) del proprio destino. L’uomo che, nello spazio fisico del bacino mediterraneo, a un certo punto impara a fare il pane, mettendo a frutto qualcosa di “naturale” come il grano, però trasformato in un alimento del tutto artificiale (perché il pane non esiste in natura), è un simbolo eloquente di questo atteggiamento ambiguo, che tende a governare i ritmi della natura attraverso i ritmi del lavoro – essi stessi disegnati, in parte, su quelli naturali, ma in parte destinati a forzarli e modificarli. Perciò un alimento così apparentemente “naturale” come il pane può diventare, nelle antiche civiltà mediterranee, il simbolo non tanto della sintonia col mondo naturale, quanto della capacità di emanciparsi dalla natura, conquistando una propria identità civile e umana: «mangiatori di pane» sono per antonomasia gli uomini, in Omero.

Il tempo del cibo è, dunque, sospeso fra tempo naturale e tempo umano – che voglio intendere come tempo della cultura e del lavoro: due termini, a loro volta, da leggere come un’endiadi. 

La produzione del cibo presuppone l’esistenza di una materia prima, di un offerta per così dire – “naturale”. Offerta che però, dal giorno in cui l’uomo esce dal paradiso terrestre, va conquistata col sudore della fronte – e dunque non è più “naturale”, ma implica un lavoro, delle tecniche, dei saperi, delle forme di intervento sui ritmi della natura.

Le piante e gli animali adatti alla sua alimentazione, l’uomo deve incominciare a saperli produrre. Uscito dal tempo immobile dell’eterna primavera edenica, figura terrestre dell’eternità divina, egli deve adeguarsi ai tempi di una natura difficile e capricciosa, mutevole, ingannevole. Il cacciatore deve conoscere i tempi di passaggio della preda, il raccoglitore l’età in cui nascono i frutti. L’agricoltore deve adattarsi alla stagionalità delle piante che si seminano, crescono e poi nascono, per essere raccolte e poi riseminate. Il pastore deve adattarsi ai tempi dell’erba che cresce, degli alberi che offrono frutti alle sue bestie. La dipendenza dai ritmi naturali determina i caratteri di ogni attività destinata al reperimento di cibo, ovverossia il tempo del lavoro nella sua essenziale funzione di garantire la sopravvivenza quotidiana degli uomini.

Monasteri e conventi fra cucina e natura

Il ricettario di padre Gaspare Stanislao Dellepiane – volume datato 1880

di Alberto Girani – tratto dal Libro “Sentieri sacri sul Monte di Portofino”

Leggendo con attenzione la ristampa della Cucina di strettissimo magro di padre Gaspare Stanislao Dellepiane, del 1880 – e scorrendo la biografia di questo acculturato francescano appartenente all’Ordine dei Minimi (voluto da san Francesco da Paola nel 1435), si ricavano, indirettamente, diverse notizie sia di carattere naturalistico sia tali da indurre a riflessioni
sul rapporto fra i religiosi e il promontorio di Portofino attraverso quella che era la loro alimentazione.
Padre Dellepiane manda alle stampe il libro un anno dopo aver lasciato la chiesa di San Nicolò di Capodimonte, che aveva retto dal 1874. Tra l’altro aveva curato la popolazione locale quale medico omeopatico, dimostrando la sua grande conoscenza nel campo dell’erboristeria. Durante il suo soggiorno, dovrebbe avere stilato molte delle 476 ricette pubblicate nel suo volume, utilizzando non si sa in quanta parte antichi testi e tradizioni religiose e locali, ma sicuramente rispettando le severe regole del suo Ordine, che impedivano l’uso di carni, latte, uova e loro derivati.
È interessante notare come a terra, ranocchie e rane, lumache e anguille, stanate dai rii con l’euforbia – il cui veleno induce i pesci a muoversi e a scappare dai rifugi – costituissero una fonte alimentare, ancorché marginale. I pesci la fanno da padrone e – specchio della cultura popolare degli uomini di mare – garantiscono un fattore importante della varietà alimentare proposta dal frate.
Ecco l’elenco dei pesci così come si susseguono nelle ricette. Per quanto concerne il mare, si hanno: acciughe – già citate, ma conservate in barile, in un documento del XIV secolo relativo all’eremo di Sant’Antonio di Niasca –, agone, angelo, argentosa, bianchetti, bolagio, boldrò, bove pesce, buga, capone, caponero, cavalla, caviglione, chiandone, chiozzo, crovello, dentice, fanfano, favotta, ferrazza, ficotto, figaro, gallinella, gronco, imperatore, indorata, lama, lampuga dorata, lecca, luccipo, lucerna rossa e nera, lupazzo, meanta, menola, merluzzo, mormora, morona, morona spinosa, moscardino, mostella, mugine, murena, notola, occhiata, ombrina, orata, palamita, palombo, pappagallo, parago, pavazzo, pelle dura, perchia, pesce prete, pesce re, pesce spada, pesce topo, pescimpiso, porchetto, rasoio, razza, ribello, rombo, ronco, rondine, rondinino, rossetti, salpa, san Pietro, sarago, sardelle, sarpa, scorfina, scorpena, serretta, sgombro, signora pesce, sogliola, sparletto, strombolo, sugherello, tanuta, tompella, tonno, tordo, tremolo, triglie, truggina, zerro.

Nel ricettario non mancano altri prodotti del mare quali i molluschi (arsella, calcinello, polpo, seppia, vongola), un crostaceo, l’aragosta, un rettile e la tartaruga di mare, cucinata al pari della quella di terra. Tra i pesci di acqua dolce – evidentemente acquistati – sono elencati, inoltre, carpa, luccio, pesce persico, tinca e storione, con il suo derivato: il caviale. Non è certo singolare che i pesci costituiscano una percentuale notevole dell’alimentazione dei religiosi, i quali presso l’abbazia della Cervara hanno addirittura costruito una peschiera di notevoli dimensioni.
Relativamente alle piante, si utilizzano – quali ingredienti secondari – pinoli, mandorle, limoni, amarene, fichi, capperi e zafferano. Appaiono anche le officinali, chissà
da quanto coltivate negli orti di contadini, di monasteri e di conventi. La grossa quantità è rappresentata, però, dalle erbe spontanee del territorio: alloro, basilico, borragine, maggiorana, mellissa citrica, menta, nepetella, origano, prezzemolo, rosmarino, salvia e timo.
Se si passa alle verdure, si trova un lungo elenco di tipi piantati nei terreni dei cenobi e in quelli dati con contratti enfiteutici. Tra le specie selvatiche, si rinvengono solo asparagi, bietole, funghi neri e ovuli, a conferma di una distanza con la cucina popolare, dove prevalgono le erbe del preboggion, ossia piante raccolte nei prati, negli uliveti, fra le pietre dei muri a secco e utilizzate in numerose ricette: da crude, in insalata, o – come indica il nome – da bollite, per ottenere contorni o ingredienti fondamentali di alcuni primi piatti.
Notizie sulla vita monastica medievale, relative ai benedettini – ordine rigoroso nel concepire l’alimentazione come esercizio nella penitenza e nella mortificazione – si possono ricavare anche per i religiosi di San Fruttuoso, considerando i diritti di cui godevano i cenobiti.
La regola benedettina è improntata a un’alimentazione sana e naturale, che è condizionata dalla produzione stagionale e diversa da regione a regione, nonché – come è ovvio – da eventi catastrofici quali guerre, epidemie, carestie e mutamenti climatici. A differenza dei Minimi, i seguaci di san Benedetto possono beneficiare di uova e formaggio, in quanto sono precluse solo carni rosse e spezie. Avrebbero potuto avvalersi quindi delle proteine derivate da alcune delle prede dei falconi da caccia, come i colombacci o i piccoli uccelli della macchia.
I falchi del territorio – oggi sono il falco pellegrino, il lodolaio, il gheppio, lo sparviero – almeno dall’inizio del secolo XII sono appannaggio dei monaci e, sicuramente prima del 1162, gli stessi hanno diritti esclusivi sulla pesca e sulla caccia. Da un privilegio solenne di papa Alessandro III sappiamo, infatti, che “[…] ogni portofinese dovrà servirsi unicamente del forno del monastero […] ogni allevatore consegnerà al cenobio tutti i fegati di maiale di oltre un mese e mezzo d’età […] , ogni pescatore in- fine cederà ogni settimana di quaresima due bughe […]”.
Una prima riflessione è legata al fegato di maiale, in quanto le diete – come quella dei minimi e dei benedettini – hanno una grave carenza nell’apporto di vitamina A, presente, invece, in grande quantità nell’alimento, che evidentemente è somministrato ai religiosi per evitare che si ammalino. Fermo restando che ai monaci e ai frati infermi sono accordate specifiche dispense alimentari, il metodo sistematico di approvvigionamento del prodotto da parte dell’abbazia di San Fruttuoso fa pensare o a una particolare concessione in deroga alle severe regole alimentari – licenza che poteva essere data solo dal papa – o a una vera e propria tipicizzazione regionale della cucina del monastero.
La consegna delle boghe in periodo di Quaresima, per giunta, conferma come la qualità del cibo oltre alla sua quantità variassero nel rispetto delle solennità liturgiche. L’alimentazione benedettina – essendo basata su pane, legumi, formaggi, pesce e vino – è infatti parsimoniosa e intercalata da digiuni ed è molto diversa da quella dei ricchi laici del tempo, dalle cui famiglie, comunque, molti monaci provenivano.
Anche nel Medioevo, sicuramente l’alimentazione dei confratelli differisce da quella della popolazione della regione: dal privilegio del 1162 di Alessandro III, emerge che tra alcuni portofinesi è diffuso l’uso del pane, come ha testimoniato lo studioso Gianni Rebora, recentemente scomparso, che ha scritto: “Un alimento destinato soprattutto a chi poteva per- mettersi di pagarne il prezzo […], il contadino non proprietario […] si nutriva male, ricorreva alla polenta (di farro, di fave, di ceci) e solo raramente usava il pane, quasi mai di frumento […]”. Questo prodotto è relativamente diffuso in quel borgo, dove la presenza militare, il commercio marittimo e la pesca creano, per alcune categorie di lavoratori, una situazione economica migliore e tale da affrancarsi dalle condizioni di sopravvivenza, che caratterizzano gli abitanti del territorio nel Medioevo.