Citiamo un brano del libro di massimo Montanari “Gusti del medioevo” che ci ha molto ispirato e ci ricorda le radici profonde del cucinare. Questo testo rappresenta perfettamente la nostra sezione NATURA-RICETTE che a sua volta rappresenta il nostro modo di cucinare per voi
Poiché non c’è vita senza cibo, il tema della cucina ha un ruolo evidentemente centrale, per così dire strategico, nella definizione dei rapporti fra tempo “naturale” e tempo “umano” – ovvero, per intenderci, fra Natura e Cultura, termini simbolicamente contrapposti, ma di fatto intrecciati in una molteplicità di relazioni complesse, per molti versi ambigue, legate alla particolare situazione dell’uomo nel mondo, nella sua duplice identità di oggetto e soggetto dell’azione, elemento, lui stesso, del mondo naturale, vincolato ai suoi ritmi e alle sue leggi, ma in qualche misura artefice (o aspirante tale) del proprio destino. L’uomo che, nello spazio fisico del bacino mediterraneo, a un certo punto impara a fare il pane, mettendo a frutto qualcosa di “naturale” come il grano, però trasformato in un alimento del tutto artificiale (perché il pane non esiste in natura), è un simbolo eloquente di questo atteggiamento ambiguo, che tende a governare i ritmi della natura attraverso i ritmi del lavoro – essi stessi disegnati, in parte, su quelli naturali, ma in parte destinati a forzarli e modificarli. Perciò un alimento così apparentemente “naturale” come il pane può diventare, nelle antiche civiltà mediterranee, il simbolo non tanto della sintonia col mondo naturale, quanto della capacità di emanciparsi dalla natura, conquistando una propria identità civile e umana: «mangiatori di pane» sono per antonomasia gli uomini, in Omero.
Il tempo del cibo è, dunque, sospeso fra tempo naturale e tempo umano – che voglio intendere come tempo della cultura e del lavoro: due termini, a loro volta, da leggere come un’endiadi.
La produzione del cibo presuppone l’esistenza di una materia prima, di un offerta per così dire – “naturale”. Offerta che però, dal giorno in cui l’uomo esce dal paradiso terrestre, va conquistata col sudore della fronte – e dunque non è più “naturale”, ma implica un lavoro, delle tecniche, dei saperi, delle forme di intervento sui ritmi della natura.
Le piante e gli animali adatti alla sua alimentazione, l’uomo deve incominciare a saperli produrre. Uscito dal tempo immobile dell’eterna primavera edenica, figura terrestre dell’eternità divina, egli deve adeguarsi ai tempi di una natura difficile e capricciosa, mutevole, ingannevole. Il cacciatore deve conoscere i tempi di passaggio della preda, il raccoglitore l’età in cui nascono i frutti. L’agricoltore deve adattarsi alla stagionalità delle piante che si seminano, crescono e poi nascono, per essere raccolte e poi riseminate. Il pastore deve adattarsi ai tempi dell’erba che cresce, degli alberi che offrono frutti alle sue bestie. La dipendenza dai ritmi naturali determina i caratteri di ogni attività destinata al reperimento di cibo, ovverossia il tempo del lavoro nella sua essenziale funzione di garantire la sopravvivenza quotidiana degli uomini.